Random Stories

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    RANDOM STORIES



    Si tratta di una raccolta di tutti i racconti che vengono pubblicati da me e dagli utenti di Altered Carbon Gdr nel corso dei contest di scrittura a cui partecipiamo. Ciò non toglie che chiunque voglia scrivere una storia e farla leggere agli altri utenti non possa pubblicarla qui per ricevere commenti e (soprattutto) complimenti. Sentitevi liberi di mipiacciare a tutto spiano e di commentare le storie che vi piacciono di più!

    Di tanto in tanto publicherò qui anche i link di contest di scrittura a cui, se lo desiderate, potete partecipare a nome del forum!

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    La prima storia è la vincitrice del concorso di Halloween indetto dal Blog di Keira ! Scritta e redatta dal nostro Troop


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    Hai il coraggio osservando lo specchio di affermare che non sei malvagio?
    Hai il coraggio osservando nei tuoi stessi occhi di affermare che l'oscurità galoppante dentro di te sia solo il riflesso delle tue buone azioni?
    Beh, io no. Ma chi è più malvagio? Io che lo riconosco o tu che lo neghi?
    Sai col senno di poi è facile parlare, dopo aver vissuto abbastanza da abbandonare ogni piccola ancora di salvezza ti lasci cadere in un vuoto che man mano diventa più scuro, più caldo e per quanto ci provi a negarlo: piacevole. Un sorso di ambrosia si diceva, un solo sorso e tutti noi saremmo diventati succubi di ciò che gli dei hanno da sempre usato come cibo. Ecco cos'è la malvagità, figlia della paura di una presa di coscienza tanto bramata quanto maledettamente rinnegata. Un ossimoro di sensazioni, ma su abbi il coraggio di negare che in fin dei conti tu non sia malvagio come me. Cambierai idea, la malvagità è in tutti noi.
    Lascia che ti racconti una storia, una piccola favola in modo da renderti più chiaro di cosa io stia parlando. Come per William Wilson che venne condotto dalla sua innaturale immaginazione e dal suo straordinario genio verso l'estraniazione: anch'io ero strano.
    Perlomeno ero diverso.
    A Bay City non è facile crescere, non è facile farsi largo fra quello schifo del primo livello. Se nasci ricco vivrai, se nasci povero allora potrai solo guadagnarti il diritto di sopravvivere e giuro; giuro sul sangue che ormai ho mischiato alla pioggia: io ci ho provato. Ci ho provato...
    Ci ho provato?

    Quando ero solo un bambino non riuscivo a provare piacere nel semplice divertimento di un ragazzotto del primo livello, non riuscivo a trovare soddisfazione rubando, non cercavo la pace interiore picchiando gli altri ragazzi e di certo non ero il tipo che si sarebbe messo un pezzo di latta sul petto improvvisandosi sceriffo fra i ragazzi. No. Non riuscivo, spesso li osservavo in disparte. Osservavo i primi amori, le prime lotte, la cattiveria ingenua di cui l'infanzia è pregna e soprattutto la crescita dei miei coetanei la loro evoluzione mentre io stesso, io stesso mi negavo quella possibilità perché non era fatta per me. Non li capivo, non gli appartenevo e più loro erano vicini a me più io sentivo il desiderio di isolarmi, di cercare la spensieratezza in qualcosa che ancora non avevo compreso sino in fondo. Solo, in un mondo che non aveva mai promesso a nessuno l'amore od altre stronzate. Solo anche fra le persone più sole. Solo o semplicemente diverso?

    Certo lo so cosa stai pensando. Io so che mi stai giudicando, che mi stai compatendo che pensi di aver compreso cosa io sia o cosa io abbia mai provato.
    No. NO! Tu non hai capito nulla, come loro! Non hai capito un cazzo di quello che sta succedendo, tu non mi conosci.
    Ma imparerai a farlo, imparerai. Come per un patto con il diavolo, imparerai a tue spese.

    Credo che accadde tutto quell'unico giorno, la mia età aveva raggiunto da poco la doppia cifra ma già sapevo sparare e dove nascondermi. Mi improvvisai anche tecnomedico, all'inizio sperimentavo sui topi ma poi passai anche ad altri animali come cani e gatti randagi... quando ero fortunato di trovarne a Bay City. Conoscevo quest'ultima, abbastanza per sopravvivere a tutto ciò che non fosse la sfortuna di beccarsi un proiettile vagante in petto o lo schifo chimico del primo livello.
    Solo come al solito, me ne stavo in disparte ad osservare in silenzio gli altri ragazzi giocare, normalmente per abitudine o sicurezza mi piazzavo più in alto di loro e godevo la pace del non essere visto.
    Un giorno però quella mia abitudine mi si ritorse contro o a favore? Ti lascerò giudicare, anzi no: sbagliare.
    Più in là riuscii a notare qualcosa che forse era troppo per un bambino come me. Mentre i miei coetanei -un agglomerato di senzatetto poveri del primo livello- allo scuro di tutto si passavano un pallone di stracci a solo una decina di metri ed un muro dall'azione, io fui l'unico a godere di quella scena.
    C'era un uomo di mezza età, probabilmente messicano o giù di lì: era stato preso di mira da altri tre uomini eleganti. Non li sentivo, ma li vedevo. Il messicano estrasse una pistola e sparò al tizio in mezzo, ma gli altri due senza nemmeno pensarci due volte quasi come fosse la scena di un film d'epoca lo fermarono sparandogli nello stomaco. Rimasi impietrito, i miei occhi spalancati e la bocca era spezzata in una smorfia di pura paura e disgusto.
    Avrei voluto urlare ma se mi avessero sentito, probabilmente avrebbero compreso la presenza di un qualche tipo di testimone oculare. Volevo andarmene ma ero impietrito di fronte a quella scena che sembrava andare ancora avanti e probabilmente a lungo. Il tizio in mezzo vivo, si tolse la camicia scoprendo un esoscheletro in acciaio, era la prima volta che ne vedevo uno. Afferrò un braccio del messicano e glielo tolse dal corpo: di netto. Un giocattolo nelle mani di carne ed acciaio di quell'essere. Alto in cielo come fosse una bandiera, quell'arto veniva usato per mutilare ulteriormente il corpo della vittima. Ricordo solo che dovetti deglutire per non vomitare.
    Ad un colpo seguiva uno spasmo del corpo morto, ad ogni spasmo si alzava il terrore che potessero vedermi ma allo stesso tempo mi si rivoltavano le viscere anche per via della veemenza con cui quel mezz'uomo infieriva sul corpo della povera vittima. Non appena finì, di scatto afferrai il muretto sotto di me e cercai di nascondermi dietro. Non ci pensai due volte e mi lancia giù, cadetti da tre metri senza la minima protezione. Impattai sull'amaro e salmastro fango del primo livello di petto, persi fiato ed un fiotto di quello che probabilmente era il mio sangue misto al vomito uscì dalla mia bocca; eppure mi ripresi, scattato in piedi corsi via alla ricerca di un riparo. Senza accorgermene anche i miei coetanei avevano lasciato il posto allertati dagli spari e dai versi di dolore che il messicano prossimo alla morte emetteva condannato ad una sorte peggiore di quella degli animali.
    Seguirono due notti insonni, tutte in quel maledetto magazzino disabitato che usavo come rifugio provvisorio. Il dolore al costato ormai andava affievolendosi ma anche se avessi avuto un polmone perforato sarei morto senza capirlo: la mia unica preoccupazione era quello che ebbi il dispiacere di vedere.
    Fermo e senza la minima intenzione di muovermi passai così 64 ore da quello che vidi. La fame, come la sete passarono in secondo piano. Persino la mia testa aveva smesso di pensare.
    Non mi preoccupava il trauma avevo sentito da un bisturi amico che le pile potevano essere resettate in seguito ad un danno psichico od un trauma rimuovendo letteralmente quel ricordo, ma non ero né abbastanza ricco per permettermelo, né abbastanza coraggioso per parlare con qualcuno di quello che avevo visto. Rischiavo di attrarre attenzioni indesiderate e rischiare di sprecare la botta di culo avuta nell'essere riuscito a scappare senza troppe conseguenze.
    Allo scoccare della sessantacinquesima ora però qualcosa in me si smosse, mi trascinai sino al nascondiglio in cui tenevo i viveri e mi nutrii di quel poco che era rimasto. Ripresomi, mi alzai in piedi e con calma mi diressi fuori.
    Volli dimenticare tutto, da allora non esisteva più quell’evento nella mia testa. Ma c’era, C’ERA! E Dio, DIO se mi sbagliavo. Da lì divenne tutto sempre più semplice mio piccolo amico che ora ascolti le mie parole. Le ultime farneticazioni di un pazzo.
    Tornai su quel cadavere sai? Distrussi la sua pila e godetti nel vedere come il sangue colava misto ad olio. Ma ora sono buono e manca molto poco alla fine dei racconti ed alla tua fine.
    Ci fu un evento che risvegliò in me quel ricordo, dei bulletti vennero a cercarmi nella mia amata fabbrica abbandonata. Un colpo semplice dopotutto, un ragazzo da solo contro tre armati? Sai come andò a finire? Mi divertii con loro, molto di più di quanto possa fare un normale umano. Lasciai in vita solo il capo mentre mi occupavo degli altri due, semplici custodie dicevo io, semplici urla ecco cosa creavano loro mentre uno ad uno scuoiai vivi le loro custodie per darle in pasto al loro capo.
    Le prima volte digiunò, poi mangiò e di gusto mostrandosi come il mostro che era. Mostro lui che mangiava, non io che lo nutrivo. Quando ebbi finito con loro iniziai a nutrirlo anche con il suo stesso corpo: andammo avanti così per settimane.
    Avevamo 15 anni.
    Ma il vero divertimento venne dopo, lasciai quel pasto per ultimo, ormai delle sue gambe rimaneva solo uno scheletro e di ciò di cui potevo cibarlo a tutti gli effetti era rimasto ben poco. Se per ben poco s’intende ovviamente lo scheletro e qualche nervo. Sublime visione di come ormai si fosse rassegnato, di come non richiamasse solo che la morte al suo capezzale rinunciando letteralmente a tutto ciò che poteva avere un minimo di speranza.
    Né idoli, né dei, né mafie e nemmeno demoni l’avrebbero salvato da cosa ancora avevo in mente di fare con il suo corpo da piccolo teppista. La notte di Halloween come a voler celebrarla nascosi nei classici lembi di carne anche le pile dei suoi amici. Quando morse ormai sperso, rividi nei suoi occhi un attimo di vita. Più masticava, più comprendeva l’atto che stava letteralmente facendo. Divorò a costo dei suoi stessi denti le pile dei due che si era portato dietro e con solo alla fine urlò obbligandomi a tagliargli la gola.
    Non avevo paura che lo potessero sentire, aveva già urlato prima, mi ero semplicemente stufato. Come un giocattolo volli la sua reazione all’ultimo atto ma poi, l’interesse svanì.
    Di come mi sbarazzai del corpo non credo ti interessi, anzi è quasi divertente che tu sappia come alla fine mi tenni per me la sua pila. Da allora la porto al collo, la catena passa proprio in mezzo al foro che ho creato quella sera stessa con un chiodo e mi serve per ricordare quanto dolce sia il sapore del dolore e della sofferenza altrui.
    Ma lascia che ti spieghi un’ultima cosa: Halloween non è sopravvissuta alla censura del protettorato. Ha cambiato nome, riti, significato e anche giorni. Ma grazie alle farneticazioni di quale vecchio pazzo del primo livello ricollegai quel giorno alla notte del 31 Ottobre. Non so perché si festeggi quel giorno, ma so che da quel giorno iniziai a festeggiarlo.
    Un omicidio era il rito. Con ogni vittima mi sono divertito sino allo scoccare della mezzanotte, dove alla fine serafico gli concedevo la grazia prendendomi la loro reale morte.
    Non l’ho mai fatto per soldi, l’ho fatto sempre per piacere e per bisogno.
    Tanti sono i nomi che al primo livello ricevetti per indicare la leggenda metropolitana che passo dopo passo si nutriva di tutte quelle sparizioni di cui sono il colpevole ma quello che preferisco è il nome che mi diedero i messicani: per i messicani sono la Santa Morte. Dio, ora sono un dio.
    Ma anche io sono una persona buona, a modo mio amo intrattenere la persona che ho rapito, racconto del perché si sia giunto a tanto. Non cerco espiazione, io amo quello che sono diventato, cerco solo di far capire alla vittima che non è per nulla importante se è stata scelta per il mio diletto.
    Può essere tutto: un’incursione nella rete andata male, un bicchiere di troppo, un giro da una prostituta o semplicemente sfortuna.
    Ciò che conta è che sappia come io sia diventato malvagio.
    Ciò che conta è che sappia come andrà a finire quel racconto.
    Ciò che conta non è la rassegnazione o la paura, ma la rabbia.
    Ciò che conta è che in questa festa dimenticata io possa dare alla vittima il suo augurio.

    Quasi dimenticavo, buon Halloween.
     
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    L'ultimo giorno


    Racconto Halloween per il blog di keira

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    «Oggi è il 31 Ottobre!» la voce raggiante di Mick rimbalzò tra le pareti fatiscenti del gigantesco edificio vuoto. Lì, un tempo, avevano abitato migliaia di persone. Quella che una volta era l’area suburbana di San Francisco ora non era altro che un silenzioso panorama di desolazione. Mick e Izzy avevano occupato ormai da quasi un anno una delle abitazioni abbandonate. C’erano ancora tutte le cose dei precedenti proprietari, mobili, lenzuola, vecchie foto, un’intera libreria e un calendario, appeso ad una parete come fosse del tutto normale possederne uno. Dopo la grande guerra erano pochi quelli che si preoccupavano di contare i giorni sulla terra, soprattutto perché ormai erano tutti morti o emigrati su altri pianeti. Per lo più morti. Era stata una guerra disastrosa, nessuno ricordava nemmeno più quando fosse iniziata, né chi avesse vinto, ammesso che qualcuno avesse vinto. Loro erano ancora vivi e forse tanto bastava per credere che fossero loro i vincitori. Lizzy però era di tutt’altro avviso, per lei avevano perso tutti.
    La voce di Mick rimase sospesa ancora per un po’ nell’aria, poi cedette e scomparve del tutto. Era sempre strano sentire la propria voce, per quanto s’impegnasse di trovare pretesti per parlare non sembrava mai abbastanza per coprire il silenzio e quando poi alla fine tornava lo assaliva sempre una certa inspiegabile angoscia. «Che importanza ha? Non cambia niente», Izzy se ne stava seduta al tavolo a trafficare con gli oggetti che avevano trovato durante una delle tante spedizioni di esplorazione, ogni volta dovevano spingersi più lontano per trovare ugualmente sempre meno roba, prima o poi se ne sarebbero dovuti andare anche da lì. «In qualsiasi altro giorno sarebbe vero, ma non oggi, oggi è Halloween. E sai cosa vuol dire?», attese una risposta che non arrivò così decise di non lasciarsi abbattere dal silenzio di Izzy, piuttosto le si portò accanto con un sorriso malizioso, «vuol dire che dobbiamo vestirci da mostri e andare in giro a cercare caramelle» concluse infilandole un cerchietto con delle orecchie da coniglio ingrigite e spelacchiate. «Che razza di stupidaggine» sbottò Izzy toccando le bizzarre orecchie che ora le emergevano dalla testa. «E’ una vecchia usanza, l’ho letto in uno dei libri che ho trovato nella stanza con il letto piccolo», Mick indossò il cappello a cilindro che aveva trovato nella stessa scatola in cui c’erano le orecchie. «Vuoi il mantello?» domandò mostrandole il lungo tessuto nero. «No grazie, mi bastano queste – e s’indicò le orecchie da coniglio – mi dici dove pensi di trovare delle caramelle?» chiese lasciando finalmente perdere le scatole di latta che stava tentando di aprire. «Non saprei, in giro, si deve andare di casa in casa a chiedere le caramelle e se non te le danno devi fare uno scherzo» spiegò Mick facendo un nodo ai lacci del mantello. «Forse non te ne sei reso conto, ma oltre noi non c’è nessuno nel raggio di chilometri», Izzy poggiò il viso sul palmo della mano mentre osservava il mantello svolazzare ad ogni movimento del ragazzo. «Meglio, più caramelle per noi. Andiamo?» Mick sembrava piuttosto soddisfatto del suo travestimento, nello sguardo aveva quella luce d’impazienza che alla fine la convinceva sempre a fare qualsiasi cosa. «E va bene, ma ci ho ripensato voglio il mantello».
    Camminavano ormai da ore e probabilmente non sarebbero tornati indietro se Mick non avesse trovato almeno una caramella, a suo dire andava bene di qualsiasi genere, forma o colore. La stanchezza tuttavia iniziava a farsi sentire e persino Izzy che era sempre la più attenta di tanto in tanto sbadigliava e si distraeva ad osservare gli affascinanti svolazzi del mantello. Mick allo stesso modo guardava lei. «Sai, non ti…» prima che riuscisse a completare la frase il frastuono di un crollo rimbombò con violenza nell’aria, assomigliava ad un tuono, ma fu seguito da una nuvola di polvere che si alzò insieme ad un colpo di vento. Il mantello di Izzy gli finì in faccia, lo scostò portandosi poi una mano davanti agli occhi per proteggersi dai detriti di cemento che gli ferivano le guance e la fronte. «Che cos'è stato?» gridò cercando Izzy non appena riuscì a vedere di nuovo. «Non lo so» rispose, aveva un’aria seria e si guardava intorno con circospezione, la nuvola di polvere si avvicinava sempre più lentamente e allo stesso tempo si faceva più bassa e più rada. «Forse una costruzione ha ceduto» tentò Mick, in fin dei conti era possibile, tutto era vecchio e abbandonato, un tempo quei ruderi avevano padroni che se ne prendevano cura ed eseguivano le normali manutenzioni, ma ormai non c’era più nessuno che lo facesse. «Izzy?» la chiamò cercando di attrarre la sua attenzione, completamente assorbita dal panorama circostante. «Izzy è stato un crollo, giusto?», un secondo rombo alla loro sinistra, il rumore era più forte, più vicino, la sferzata d’aria e polvere più violenta. Li travolse come un’onda grigia e soffocante. Mick tossì e sentì fare lo stesso ad Izzy più volte, alzò appena lo sguardo per cercarla, ma tutt’intorno non c’era altro che fumo grigio. «Izzy!» gridò scatenando una nuova crisi di colpi di tosse. Per quanto si sforzasse non riusciva e non poteva inspirare. La tosse gli strappava aria dai polmoni finché non ne rimase per riempire i polmoni. Cominciò a boccheggiare in cerca di ossigeno, ma tutto quello che trovò fu altra polvere con cui riempirsi la gola. Non era un semplice crollo. Stava succedendo. Succedeva davvero. Izzy lo aveva sempre saputo, sapeva che sarebbe successo, che prima o poi sarebbe toccato a loro com'era successo a tutti gli altri. Dovevano scappare, andarsene, fuggire il più lontano possibile. «Izzy!» tentò di nuovo ormai preda del panico, non riusciva a pensare, a respirare, a vedere un bel niente, ma soprattutto non riusciva a vedere lei. Tentò di calmarsi. Presto la polvere sarebbe scomparsa. Era solo questione di tempo, doveva resistere solo un altro po’. Contò i secondi che lo separavano dall’aria pulita, lo fece finché i numeri non focalizzarono tutta la sua attenzione distogliendola dalla paura che dietro quei crolli e dentro quella polvere si nascondesse qualcosa di più del caso. E come nulla fosse tornò il silenzio. Era ovattato, come se la polvere attutisse ogni suono. Tossì e sputò finché non riuscì a respirare di nuovo. L’aria si fece più limpida e riuscì finalmente a vedere qualcosa. Era completamente ricoperto di polvere, la sentiva infilata anche sotto i vestiti e tra i capelli, fu toccandosi la testa che si rese conto di non avere più il cilindro. Si guardò intorno, avanzò titubante di qualche passo. Poi lo vide. Non troppo lontano, il uso cilindro rotolava solitario senza una meta apparente. Lo raggiunse di corsa, ma prima di fermarsi per sollevarlo intravide un’altra figura scura, sbiadita dalla polvere. «Izzy?» domandò facendo qualche passo avanti. «Sei tu?» avanzò ancora, un suono rauco lo paralizzò all’istante, le orecchie tese. «Mick?» rispose Izzy con una voce stridula che gli restituì in un attimo tutti i battiti del cuore che aveva perso in quei pochi secondi. «Arrivo, aspetta!» gridò in tutta risposta accelerando il passo. Più si avvicinava più nitidamente riusciva a vedere i lineamenti del volto di Izzy. Era pallida, coperta anche lei di polvere, i suoi occhi umidi, leggermente socchiusi. La vide accennare un sorriso e un rigolo scuro colare lungo l’angolo delle labbra fino al mento. Mick rallentò il passo cercando di capire cosa fosse. «Izzy?», la testa di Izzy si abbassò e così anche lui abbassò lo sguardo. Al centro dello stomaco emergevano tentacoli rubicondi, grondanti. Dietro di lei, oscurato dalla nube di polvere, c'era il profilo enorme e oblungo di una creatura aliena che animava gli incubi della sua gente dall’inizio della grande guerra e che aveva visto solo una volta, da bambino, tantissimo tempo prima. In un attimo i tentacoli ebbero un sussulto e arrotolandosi intorno alle gambe e le braccia della ragazza la tirarono fino a spezzarla. La testa, il braccio e la gamba insieme a parte del tronco da un lato e il resto del corpo dall’altro. Il sangue schizzò ovunque intorno a lei, scuro e pastoso mischiato alla polvere dei ruderi abbandonati. I tentacoli abbandonarono i resti per stringersi famelici intorno a ciò che erano riusciti ad estrarre via dal corpo come un mollusco dal suo guscio, un piccolo core bioluminescente. Gocciolava sangue verdastro dalle estremità dendritiche strappate via insieme al corpo dell’umana. Oltre il velo di lacrime Mick riconobbe Izzy, la sua pelle luminosa pulsava debolmente ma viva. Avrebbe ancora potuto trovarle un altro corpo in cui metterla prima che l’atmosfera della terra la uccidesse. Non fece in tempo a fare il primo passo per correre verso di lei che i tentacoli con un guizzo trascinarono la luce di Izzy lontano, fin dentro le fauci del mostro, che la masticò chiazzandosi le zanne di sangue verde. Mick cadde in ginocchio tappandosi le orecchie e chiudendo gli occhi incapace di guardare, o sentire quel suono raccapricciante schiacciare e lacerare. Avrebbe preferito mille e mille volte il silenzio a tutto quello, un silenzio infinito a quello. Quando il mostro ingoiò il rumore roco e profondo gli riempì il cuore di solitudine, una solitudine vorace, completa, talmente grande da spezzarlo. Si sollevò lentamente in piedi. Senza il favore della polvere l’alieno non avrebbe avuto nessun altro vantaggio a proteggerlo dalla sua morte. Quel giorno la guerra tra Klyn e Sibath sulla terra sarebbe finita per sempre. Izzy sarebbe morta per la pace e ogni cosa avrebbe avuto di nuovo un senso, anche il silenzio, anche la solitudine. Cominciò a correre bruciando le calorie che ancora rimanevano in quel corpo. Incanalò l’energia prodotta concentrandola nel palmo della mano che lentamente cominciò a sollevare. E così più correva rapidamente più la sua forza aumentava, la terra cominciò a tremare e fu come se il Sibath avesse un sussulto, la rimembranza di un potere che aveva dimenticato sotto i colpi di una fame lancinante. Tentò di fuggire, ma i suoi movimenti erano troppo lenti per il Klyn che arrivò a spezzare i muscoli e le ginocchia dell’umano per richiamare tutta l’energia cinetica che possedeva in corpo. La terra tremò con più violenza ancora e prima che Mick cedesse al dolore, un lampione si sradicò dall’asfalto e sfrecciò con inaudita violenza contro la testa del mostro trapassandola in un’esplosione di melma e carne. Il grido della creatura dovette soccombere al rumore del suo esoscheletro in pezzi che rimbombò tra gli edifici vuoti e le strade desolate. Mick cadde a terra e rotolò alzando un nugolo di polvere. La sua vita si spense in un respiro, l’ultimo suono sulla terra.

    Edited by Data. - 17/11/2018, 17:49
     
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    Resta con me


    Racconto di Halloween per Dark Side of Graphic

    Da quando si era trasferita a Green Hill, Lauren faceva le migliori dormite della sua vita. Non avrebbe immaginato che una vecchia casa stile vittoriano, arroccata su una collina fuori mano, senza wi-fi e a malapena elettricità sufficiente per vecchie lampadine impolverate sarebbe stata tanto pacifica. La verità che si nascondeva dietro quella singolare incredulità era la convinzione che ogni villa abbandonata trovata a buon mercato fosse infestata da ospiti indesiderati, fantasmi vendicativi, poltergeist irascibili, bambini sacrificati a satana e vittime di efferati omicidi ammassati nel seminterrato. Invece, da quando era lì, faceva lunghe dormite mentre il suo ragazzo si preoccupava di imbrattare le tele bianche nella speranza di creare “il capolavoro”, quello che avrebbe fatto decollare la sua carriera e reso lui incredibilmente ricco. L’unico inconveniente che guastava quelle giornate altrimenti perfette era l’abitudine ricorrente di Lauren di fare passeggiate notturne. Sonnambulismo. Esattamente il genere di cosa per cui cominci a domandarti se non stai ammattendo, soprattutto quando aprendo gli occhi ti ritrovi in mezzo ad una foresta ed hai bisogno di più di due ore per trovare la via di casa. Mentre Lauren districava l’ennesima foglia dai capelli neri per gettarla spazientita dietro di sé, la voce calorosa di Alex l’accolse a casa con un allegro bentornata. “Un’altra passeggiata al chiaro di luna?”, spiritoso, era di buon umore, doveva aver azzeccato una miscela di colore particolarmente complessa. “Dovrebbe preoccuparti che la tua fidanzata si avventuri di notte in un bosco con gli occhi chiusi, potrei andare a sbattere contro un albero”. Alex si lasciò sfuggire una risata affettuosa, “oppure potresti perderti e non riuscire più a trovare la strada di casa. Sarebbe una tragedia, da solo non sarei capace di pagare l’affitto di questo posto”. Lauren alzò gli occhi al cielo, si erano trasferiti da poco nel posto più economico che erano riusciti a trovare sul mercato e Alex continuava comunque a parlare di soldi. “Il caffè è sul tavolo, ne ho fatto anche per te”. Accanto alla tazza c’era il giornale locale, un quotidiano noioso e fin troppo fornito di chiacchiere da paese più che di vere notizie. Questa volta però il giornale sfoggiava in prima pagina una vera notizia di cronaca, un omicidio. L’omicidio dell’uomo era avvenuto vicino ad un campo di castagne, mentre era intento a derubare il proprietario del frutteto di grosse casse del suo prodotto. Morto per delle castagne. Che morte patetica. Si scoprì a sorridere, un ghigno che si sbrigò a cancellare stranita. Alex interpretò la sua espressione come preoccupazione, “Sta sera troveremo un’altra soluzione, vedrai”. Avevano già provato a chiudere a chiave le porte, ma lei usciva come niente fosse, non c’erano chiavistelli che non fosse capace di aprire nel sonno. “Non è questo, è che i miei nonni… loro erano molto superstiziosi, dicevano che porta male quando qualcuno muore vicino casa”. Il suo sguardo tornò sul giornale, osservò l’immagine della scena del delitto, il frutteto e l’erba macchiata di sangue, assomigliava ad una chiazza d’inchiostro rovesciato sulla fotografia. Riusciva ad immaginare il liquido scuro affondare nelle maglie strette della carta, scendere più in profondità e impregnare ogni cosa, allargarsi fino a mescolarsi con il profilo dei fili d’erba, lungo le line dei tronchi di castagno e poi oltre i confini della fotografia per afferrare le parole stampate e risucchiarle nella pozza scura. Lauren lasciò la presa sul giornale, ma era troppo tardi, l’inchiostro scuro le aveva macchiato i polpastrelli e dalle punte delle dita si allungava sugli avambracci fin sopra i gomiti. Tentò di pulirlo via, strofinando le braccia sempre più forte arrivando persino a grattarsi strati e strati di pelle, ma sotto ogni ferita l’inchiostro scendeva più in basso, così macchio i muscoli e allora Lauren affondò le dita per strappare via anche quelli fino a che non vide le ossa bianche come madreperla. Quel colore ebbe l’effetto di rassicurarla, si rese conto di aver smesso di respirare così riprese, ma quando macchie scure intaccarono come muffa quel colore candido un urlo straziante finalmente si liberò dalla sua bocca. “Lauren!” la voce di Alex la scosse, alzò gli occhi su di lui e vide nel suo sguardo la sorpresa. Tornò a guardare le braccia ma improvvisamente erano tornate normali, il giornale era a terra ai suoi piedi con le pagine spalancate e disperse. Il ragazzo si piegò a raccoglierle “non pensavo fossi così suggestionabile” commentò guardando la foto per poi buttare il giornale, “Non… non l’hai visto?” gli domandò fissandolo ancora atterrita. “Cosa?”, Lauren allungò le braccia per mostrargliele come se bastasse a spiegare “l’inchiostro! era ovunque, stava macchiando ogni cosa e… e non sembrava nemmeno più solo inchiostro”, si rese conto che dicendolo ad alta voce sembrava un’assurdità. “Niente più film dell’orrore prima di andare a dormire, Lauren” scherzava di nuovo, Alex era così, non c’era niente che prendesse sul serio, l’unica cosa di cui gli importava erano i suoi stupidi quadri. “Ti dico che l’ho visto! Forse è stata un’allucinazione, ma sembrava reale”, tornò ad osservarsi le mani, erano pulite, più o meno, i polpastrelli erano leggermente arrossati, anzi quasi arroventati. Lanciò un’occhiata anche alle braccia, ma non c’erano i segni dei suoi graffi. Scosse la testa e tentò di mandare giù l’ansia con una tazza di caffè. Troppo amaro, quasi metallico, al punto da ricordarle il sapore del sangue che si succhiava via dalle ferite da bambina. Cenarono tardi quel giorno, il suo capo l’aveva trattenuta fino a tardi per completare dei documenti importanti. Quando finalmente era riuscita a liberarsi Alex non aveva preparato niente. Allora aveva scaldato due pizze surgelate osservandole cuocere con l’aria malinconica di chi avrebbe messo sul fuoco un paio di costose bistecche. Quando finirono di mangiare Alex tornò al suo lavoro e lei sparecchiò il tavolo. Lasciò i piatti vuoti nel lavandino, alzando gli occhi incrociò il suo riflesso nel vetro della finestra, dietro di lei c’era il profilo scuro degli alberi e sopra di esso il cielo plumbeo carico di neve. Sembrava un piumone calato sul mondo, tirato fin sopra gli occhi per proteggersi dalla vista di un mostro. D’un tratto il vento calò, le chiome ondeggianti degli alberi si fermarono, tutto sembrò paralizzarsi, trattenere il respiro per catturare ogni suono, come i passi del mostro che si stava avvicinando, l’incubo nascosto sotto il letto, quello che Lauren da piccola era convinta vivesse nelle ombre della sua stanza. Tornò a mettere a fuoco il proprio riflesso e solo in quel momento notò i suoi occhi, proprio dietro le spalle, neri come pozze di tenebra. Si voltò di scatto e in quell’istante le lampadine si fulminarono con uno scoppio. Il buio calò nella cucina. L’unica luce veniva dalla finestra, era grigia, pallida, incapace di vincere l’ombra, disegnava solamente il profilo di ogni superficie. Davanti a Lauren non c’era nessuno. “Alex! Alex?” gridò con voce strozzata precipitandosi nella stanza che usava come studio d’arte. Non era lì. Si rese conto in quel momento che senza di lui la stanza sembrava un mausoleo. I dipinti ammassati contro le pareti erano le lapidi, il cavalletto rivolto alla finestra un fantasma che guardava il panorama grigio oltre gli infissi, le sbarre di una prigione in cui era condannato a rimanere per sempre. Lauren si avvicinò lentamente al dipinto per guardarne il disegno. Quello che vide le strozzò un grido in gola. C’era lei, con i suoi stessi vestiti in dosso, in quella stessa stanza buia, che osservava quello stesso quadro sul cavalletto, ma dietro di lei la sua ombra si allungava a formare un mostro dagli occhi neri in procinto di afferrarla. Scattò in un istante come per sfuggire a quella presa. Raggiunse di corsa la porta, la spalancò e una ventata d’inverno le frustò la faccia costringendola a chiudere gli occhi. Quando li riaprì davanti a lei c’era il cielo grigio, luminoso, fiocchi di neve candida danzavano giù come ballerini per poi posarsi sulle sue guance roventi. Capì così che era distesa. Si alzò frastornata a sedere. Sapeva di aver dormito perché si sentiva ancora piacevolmente assonnata. Doveva aver camminato di nuovo nel sonno, di certo aveva fatto uno strano sogno, ne riusciva a cogliere il ricordo, ma non era in grado di metterlo a fuoco. Abbassando lo sguardo sui vestiti fastidiosamente bagnati notò che avevano macchie di uno strano colore, a quella luce grigia sembrava nero, ma le bastò guardare la neve per rendersi conto che si trattava di rosso. Intorno a lei la distesa di neve era sporca di sangue. Il battito del cuore accelerò come se volesse aprirsi la sua strada attraverso il petto. Lauren cercò frenetica una ferita sul proprio corpo, ma non ce n’erano, allora cominciò a cercare un cadavere. La sola idea era agghiacciante, più gelida del freddo che le premeva contro la pelle. Seguì il sangue rendendosi conto che stava percorrendo a ritroso la strada di casa. Arrivata spalancò la porta socchiusa, il suono dei suoi passi risuonò nel silenzio di Green Hill seguito poi da un grido straziato ed un pianto disperato. Lauren era rimasta sola, ancora una volta. E mentre pensava che la morte la perseguitava come un mostro da quando era bambina, strappandole chiunque avesse mai amato, i suoi genitori, i suoi nonni e Alex, l’attraversò il pensiero che era lei ad averla portata con sé tutto il tempo. Dopotutto, in quella vecchia villa, in cima alla collina, isolata dal mondo, c’era davvero nascosto un mostro.
     
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